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Aun certo punto Geppi Cucciari guarda un punto fisso davanti a sé, abbassa il tono della voce e riflette sul modo in cui gli altri la guardano. «Temo sempre che la gente possa pensare che io sia solo quella che vede in tv, ignorando che la sostanza è molto più complessa di un modo di essere», dice dalla finestra di Zoom aperta nel giardino della sua casa vicino a Olbia, con i parenti che ogni tanto saluta al di là dello schermo e con gli occhiali da sole che terrà dal primo all’ultimo istante, come una coperta di Linus. La postura che la accompagna in tv, quella di una donna con la risposta sempre pronta, per alcuni aggressiva, non potrebbe essere più lontana da quella che in realtà Geppi è. A 51 anni, e dopo una carriera straordinaria che la vede condurre programmi di successo in radio e in tv – Un giorno da pecora torna il 30 settembre su Rai Radio1 e Splendida cornice il 24 ottobre su Rai3 –, riempire i teatri con spettacoli come Perfetta, scritto per lei da Mattia Torre e girato nel 2023 da Paolo Sorrentino per la Rai, e recitare in film imperdibili – l’ultimo è Diamanti
di Ferzan Özpetek, che vedremo prossimamente – è tempo di guardarsi dentro come non ha mai fatto prima, con la speranza che non basti più un’occhiata per infilarla all’interno di una gabbia.
Che esperienza è stata lavorare con Özpetek?
«Quando è venuto ospite a Splendida cornice, ho provato a sedurlo artisticamente dando vita a una cena pseudovirtuale nello studio. Lui, però, aveva già chiuso il cast, e avrebbe dovuto iniziare a girare dopo un mese e mezzo. La vita, però, è strana e beffarda: dopo tre settimane ha squillato il telefono, era lui, e io sono diventata Fausta, una donna coraggiosa, parte di un gruppo di sarte alle prese col lavoro e con la vita, negli anni ’70. Non avrei mai immaginato di lavorare con lui così a breve termine, né di vedermi bionda. Se hai la fortuna di trovare le persone giuste sul lavoro, sai già che renderanno le tue giornate, e quindi la tua vita, più gentile».
Quanto è contata la gentilezza nella sua vita?
«Vengo da una famiglia con due genitori con caratteristiche opposte, un padre molto sbrigativo e una madre dolcissima. Respirando in casa questi due sapori, forse sono diventata un non equilibratissimo mix dei due, considerando che ho dei modi che hanno poco a che fare con la gentilezza che tanto apprezzo e molto con una certa sbrigatività che avevo fin da prima che la notorietà diventasse una conseguenza del mio lavoro».
Che rapporto ha con il successo?
«Odio quella parola, che tra l’altro è un participio passato. La notorietà ce l’hanno anche i malviventi, anche se incontrare le persone per strada che, quando mi riconoscono, mi sorridono spontaneamente è bellissimo. A volte scopro di essere stata presente in qualche modo nella loro vita, anche in momenti delicati in cui avevano bisogno di compagnia o perché mi sono occupata di qualcosa che sta loro a cuore. È una cosa che mi commuove».
Cos’altro la commuove?
«Piango almeno una volta al giorno, considerando che le lacrime sono sopravvalutate come sinonimo di tristezza e sono una grande manifestazione di emozioni. Le lacrime non bisogna trattenerle, come gli starnuti. Non fa bene. È per questo che piango gratuitamente, saltuariamente e arbitrariamente. Piango se sono stanca, se faccio un sogno che mi agita, ma anche per una canzone, per un film, per un libro o un odore. In questi giorni ero a Macomer, il paese in cui sono cresciuta, ed è capitato che un odore mi riportasse a mia madre che non c’è più. Le lacrime sono emozioni e vita».
Quando ha perso sua madre?
«Nel 2010, per un cancro. Penso a lei ogni giorno, credo che il dolore, la nostalgia e la malinconia vadano coltivate e ascoltate quanto le cose belle della vita».
Il dolore come si supera?
«Non si supera. Impari a conviverci con il tempo. Io e mia madre eravamo molto vicine, ci siamo innamorate reciprocamente e ulteriormente da adulte: era una donna stupenda, oggi mi mancano molto la sua amicizia, la sua dolcezza, la sua saggezza e la sua gioia. Mi spiace davvero che non mi abbia visto fare tante cose, anche se è riuscita a capire che questo era diventato il mio lavoro, chiedendomi scusa per aver insistito così tanto che mi laureassi perché ha sempre saputo che avrei voluto fare altro. Quando mi ha detto “Figlia mia, ora fai quello che vuoi”, ho ritrovato una forza incredibile, la gioia e la leggerezza di provare a percorrere quello che era un sogno e farlo diventare un lavoro».
Far ridere in televisione durante quel momento le è pesato?
«Facevo Victor Victoria e dovevo finire quello che avevo iniziato, anche se non è stato semplice. Fino a quando c’è stata lei, ho detto di no a tutto il resto, scegliendo di starle vicino. Lo considero un grande privilegio che il mio lavoro mi ha dato, potermi fermare per accompagnarla, nei ricoveri e nelle cure, visto che tantissimi figli, mariti, non possono farlo. Tenere la mano a chi ami in quei
momenti è straziante e meraviglioso insieme».
Come ha affrontato quel dolore?
«Ero diventata parte degli arredi dell’ospedale di Torino dove mia madre era ricoverata, e poi di Sassari, dove è stata curata. La cosa che mi ha sempre colpito è che non era arrabbiata per quello che stava attraversando: è sempre rimasta dolce, disponibile e positiva, credo anche per rendere a tutti noi più facile starle accanto».
Come è stato il rientro?
«L’allora direttore di La7 Lillo Tombolini, grande gentiluomo, che purtroppo oggi non c’è più, ha avuto la pazienza e la gentilezza di aspettarmi, sapendo quant’era delicata la situazione. G’Day doveva cominciare a settembre, proprio quando mia madre si è aggravata, ma è cominciato solo quando lei non c’era più, sei mesi dopo. È stato un atto di sensibilità che mi porto nel cuore».
Negli ultimi anni anche il pubblico si è accorto della sua sensibilità: cosa è cambiato?
«La scelta delle cose di cui occuparsi. Dopo Zelig, da cui tutto è partito, ho sentito il bisogno di sperimentare altri terreni e toccare altri argomenti. Negli ultimi anni ho ascoltato tante storie di rabbia e ingiustizia che mi hanno fatto piangere, da quella dei lavoratori della Whirlpool, che avevano un garbo e una dignità incredibili, a Lucy Salani, la prima transessuale deportata in un campo di sterminio. La sua forza nel parlare del suo passato e nell’affrontare quello che le restava da vivere mi hanno commosso anche se, quando succede, le lacrime cerco di controllarle, perché non vorrei che sembrassero la strumentalizzazione della fragilità del mio interlocutore».
In tv si batte per tanti temi importanti, dai diritti civili alla condizione della donna nei dibattiti pubblici: ha mai avuto paura di esporsi?
«È un rischio che condivido con tutto il mio gruppo di Splendida cornice. Penso che non ci si possa voltare dall’altra parte rispetto a certi temi che, secondo me, dovrebbero essere fondamentali anche per il nostro gruppo editoriale. Sono lieta che la Rai tuteli e garantisca il pluralismo: ha chi guarderemmo sempre e chi non guarderemmo mai».